#Lapiziaween: Le strade del male - Recensione

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martedì 20 marzo 2018

La leggenda del pianista sull'oceano: recensione, acqua & Giffoni


Conferma avuta, si riparte. L'avventura continua. Per me che amo il mondo del cinema essere scelta nuovamente come giudice per il Giffoni Film Festival è un'opportunità unica e meravigliosa. Il tema del contest di quest'anno era l'acqua; un elemento che permea la vita dell'uomo a 360° gradi, ma che mi ha fatto pensare immediatamente a uno di quei film che mi fa commuovere ogni volta che mi capita di guardarlo. 

La leggenda del pianista sull’oceano è la storia di Danny Boodman T.D. Lemon Novecento, un orfano che ufficialmente non è mai esistito. Nato sul transatlantico “Virginian” nel primo giorno, del primo mese, del nuovo secolo, venne cresciuto, per i suoi primi otto anni di vita, da Danny Boodman; un operaio di colore che fece del mare il suo sepolcro. 
Max Tooney, il narratore della leggenda, dal 1943 ci catapulta agli inizi del 1900, iniziando a narrare la leggendaria storia di quel pianista che conobbe all’età di 24 anni, quando decise di salire a bordo di quella nave per poter cercare la propria fortuna come trombettista Jazz. L’innocenza di quello sguardo, la curiosità di quel sorriso, fanno sì che possa nascere quasi immediatamente una splendida amicizia tra Lemon Novecento e il giovane Max.

Fin dall’apertura del film di Giuseppe Tornatore, grazie alla magica colonna sonora di Ennio Morricone, si viene trasportati in un mondo fatto di acqua, di timori, di smarrimento; un mondo dove le “note normali” non esistono, dove la musica è lo strumento che mette a nudo l’anima di Novecento (Tim Roth), ma che gli permette di leggere e comporre le melodie dipinte sui volti di quella piccola fetta di mondo che sale e scende dopo ogni traversata.
La creazione di questo specchio della realtà dei primi del ‘900 fa di questa pellicola un monumento tutt’ora attuale. La delicatezza con cui affronta lo smarrimento che la modernità ha provocato nell’individuo e la ricerca di speranza ne fanno tematiche che possono essere integrate nella psicologia degli individui di oggi, ma soprattutto possono essere riscontrate in quella parte della popolazione mondiale che è alla ricerca di una patria che possa chiamare “casa”.
Proprio secondo quest’ottica, appare chiaro come il mare diviene un non-luogo, quel ponte di passaggio, dal quale non si può realmente scendere, capace, attraverso la sua voce, di trasmette quella speranza che spinge l’uomo a mollare tutto per poter trovare la propria fortuna.

Facendo, però, proprio il punto di vista di Novecento, l’acqua, in contrasto con la terra ferma, diviene vita e casa, ma soprattutto madre che con il suo rassicurante ondeggiare lo ha cullato fino alla fine dei suoi giorni.
Nella narrazione è il montaggio stesso che, tramite la sovraimpressione della pellicola, riesce a porre, sotto lo sguardo dello spettatore, il profondo nesso psicologico che lega il più bravo “solleticatore d’avorio dei sette mari” all’immagine dell’oceano. Suonava solo in mare aperto, lontano dai porti, lontano dai profili di quelle città di cui non riusciva a vedere la fine, perché lui nel mare, nella nave, non vi vedeva altro che la possibilità di controllare quello che era il flusso della sua vita. La città, la terra sconfinata, viene vista come il pianoforte di Dio; un mondo pieno di possibilità, troppe per la semplicità a cui Novecento si è abituato a vivere. Al contrario, quella nave non è altro che la sua musica, ottantotto tasti sulla quale lui può suonare un’infinita possibilità di melodie, ma che sono tutte decise da lui stesso.  

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