Conferma avuta, si riparte. L'avventura continua. Per me che amo il mondo del cinema essere scelta nuovamente come giudice per il Giffoni Film Festival è un'opportunità unica e meravigliosa. Il tema del contest di quest'anno era l'acqua; un elemento che permea la vita dell'uomo a 360° gradi, ma che mi ha fatto pensare immediatamente a uno di quei film che mi fa commuovere ogni volta che mi capita di guardarlo.
La leggenda del pianista sull’oceano è la storia di Danny Boodman T.D. Lemon Novecento, un orfano che ufficialmente non è mai esistito. Nato sul transatlantico “Virginian” nel primo giorno, del primo mese, del nuovo secolo, venne cresciuto, per i suoi primi otto anni di vita, da Danny Boodman; un operaio di colore che fece del mare il suo sepolcro.
Max
Tooney, il narratore della leggenda, dal 1943 ci catapulta agli inizi del 1900,
iniziando a narrare la leggendaria storia di quel pianista che conobbe all’età
di 24 anni, quando decise di salire a bordo di quella nave per poter cercare la
propria fortuna come trombettista Jazz. L’innocenza di quello sguardo, la
curiosità di quel sorriso, fanno sì che possa nascere quasi immediatamente una
splendida amicizia tra Lemon Novecento e il giovane Max.
Fin
dall’apertura del film di Giuseppe Tornatore, grazie alla magica colonna sonora
di Ennio Morricone, si viene trasportati in un mondo fatto di acqua, di timori,
di smarrimento; un mondo dove le “note normali” non esistono, dove la musica è
lo strumento che mette a nudo l’anima di Novecento (Tim Roth), ma che gli
permette di leggere e comporre le melodie dipinte sui volti di quella piccola
fetta di mondo che sale e scende dopo ogni traversata.
La
creazione di questo specchio della realtà dei primi del ‘900 fa di questa
pellicola un monumento tutt’ora attuale. La delicatezza con cui affronta lo
smarrimento che la modernità ha provocato nell’individuo e la ricerca di
speranza ne fanno tematiche che possono essere integrate nella psicologia degli
individui di oggi, ma soprattutto possono essere riscontrate in quella parte
della popolazione mondiale che è alla ricerca di una patria che possa chiamare
“casa”.
Proprio
secondo quest’ottica, appare chiaro come il mare diviene un non-luogo, quel
ponte di passaggio, dal quale non si può realmente scendere, capace, attraverso
la sua voce, di trasmette quella speranza che spinge l’uomo a mollare tutto per
poter trovare la propria fortuna.
Facendo,
però, proprio il punto di vista di Novecento, l’acqua, in contrasto con la
terra ferma, diviene vita e casa, ma soprattutto madre che con il suo
rassicurante ondeggiare lo ha cullato fino alla fine dei suoi giorni.
Nella
narrazione è il montaggio stesso che, tramite la sovraimpressione della
pellicola, riesce a porre, sotto lo sguardo dello spettatore, il profondo nesso
psicologico che lega il più bravo “solleticatore d’avorio dei sette mari”
all’immagine dell’oceano. Suonava solo in mare aperto, lontano dai porti,
lontano dai profili di quelle città di cui non riusciva a vedere la fine,
perché lui nel mare, nella nave, non vi vedeva altro che la possibilità di
controllare quello che era il flusso della sua vita. La città, la terra
sconfinata, viene vista come il pianoforte di Dio; un mondo pieno di
possibilità, troppe per la semplicità a cui Novecento si è abituato a vivere.
Al contrario, quella nave non è altro che la sua musica, ottantotto tasti sulla
quale lui può suonare un’infinita possibilità di melodie, ma che sono tutte
decise da lui stesso.
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