#Lapiziaween: Le strade del male - Recensione

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mercoledì 3 giugno 2020

#Cultedì: American Beauty - Recensione


Considerato per molti un vero e proprio cult della cinematografia di fine anni ’90, American Beauty è recentemente approdato sulla piattaforma in streaming di Netflix.
Era l’8 settembre del 1999 quando, al Grauman’s Egytian Theatre di Los Angeles, su proiettato per la prima volta. Non era una pellicola dalle molte pretese, gli attori presenti sono entrati nell’immaginario collettivo e, all’allora sconosciuto regista, non rendeva altisonanti le aspettative del pubblico. Il film riscosse un notevole successo, così, dopo al sua uscita, esso ottenne numerosi riconoscimenti tra cui il premio come miglior film, migliore regia e miglio attore protagonista.
Sam Mendes, candidato agli Oscar 2020 per 1917, aveva portato in scena un’attenta critica nei confronti della società americana e dell’immobilismo che la routine matrimoniale molte volte porta con se. La pellicola, infatti, narrata dal suo protagonista Lester, narra i turbamenti e le ossessioni che iniziano a scatenarsi in lui.

Lester Burnham (Kevin Spacey) è un uomo di 42 anni e la crisi di mezza età lo fa sentire depresso, annoiato e arreso; si è lasciato vivere dalla vita coniugale senza che lui potesse realmente riuscire ad aspirare ad altro. Inglobato in una routine che lo fa sentire patetico, in un lavoro che non lo appaga e in una relazione in cui il talamo serve solo per poter mettere fine all’ennesima giornata. La moglie (Annette Bening), dal canto suo, ha iniziato più a tenere alle cose che la circondano più del rapporto che ha con il marito stesso. Lavora come venditrice di case e come hobby coltiva delle rose rosse della varietà American Beauty.
Accanto alla famiglia Burnham si trasferisce la famiglia Fitts composta da un ex colonnello del Corpo dei Marines Frank (Peter Gallagher), dal figlio Ricky (Wes Bentley) e dalla madre Barbara (Allison Janney). Il loro nucleo famigliare è caratterizzato dalla forte presenza autorevole che il padre esercita sia sulla moglie che sul figlio, nonostante Ricky cerchi di evadere dalla realtà domestica spacciando e consumando sostanze illegali.
Una sera i coniugi Burnham vanno ad assistere allo spettacolo delle cheerleader della quale la figlia fa parte, durante quell’occasione Lester conosce l’amica di suo figlia Angela (Mena Suvari) e riversa su di lei dei turbamenti quasi adolescenziali. L’uomo, infatti, viene risvegliato dal suo torpore dalla bellezza di Angela iniziando a peccare immaginando di toccare il suo corpo nudo. Le rose, così, divengono simbolo di quella perdizione, di quel peccato, che risveglia i sensi.
Angela, dal canto suo, sa di piacere e le piace avere questo potere sull’uomo. Le piace essere guardata, osservata, le piace essere la tentatrice e la seduttrice che con il semplice tocco riesce a far cadere chiunque lei desideri ai suoi piedi. Atteggiamento che mostra la sua piena immaturità, dovuta all’età, quando si scontra con le parole di Ricky, perché esse metteranno in luce la sua profonda insicurezza e quel vuoto che deve riempire per cercare di non essere una qualunque.

Nonostante la narrazione vera e propria si apra e si concluda con le parole di Lester, sono i personaggi intorno a lui che cedono ed eccedono al peccato. Lui, mosso dal desiderio, non commetterà mai effettivamente ciò che ha dato via alla sua rinascita giungendo ad una sublimazione del sè che lo fa stare da Dio.

La bellezza di questa pellicola è segnata dall’uso delle luci, delle inquadrature e dalla presenza dominante del rosso passionale e carnale. Le luci si muovono sulla scena quasi in modo teatrale, come se si assisteste alla video-visione di un’opera del Caravaggio. Gli occhi di Angela vengono maggiormente illuminati, quando conosce Lester, come a segnare non solo la sua bellezza, ma anche la sua mortalità. Accenti che spingono a puntare l’attenzione dello spettatore sui particolari per cogliere la bellezza della sottile arte della seduzione.
Le inquadrature e l’uso della camera, in particolare, conferisce una denotazione precisa e si alterna secondo quelli che sono i differenti punti di vista che si alternano in scena. Ricky, mentre spia la famiglia Burnham, usa una telecamera dalla qualità ben distinguibile da quella della camera da presa; ciò mostra proprio il passaggio da una visione narrativa generale a una soggettiva.
Infine il rosso, il colore che tutti associano in automatico a questa pellicola anche per merito delle rose.

L’idea per American Beauty venne allo sceneggiatore Alan Ball che si ispirò alla vera storia di Amy Fisher, una giovane donna diventata famosa sui tabloid americani all’inizio degli anni Novanta con il soprannome di “Lolita di Long Island”. La ragazza iniziò una relazione con un uomo più vecchio e finì per sparare a sua moglie di cui era gelosa, ricevendo poi una condanna a sette anni di carcere. Quando la notizia colpì Ball egli era uno sceneggiatore teatrale, e nel provare a scrivere questa storia si rese conto che non avrebbe funzionato su un palco, così mise il soggetto da parte.
Dopo anni, Ball tirò fuori la sceneggiatura che venne acquistata dalla Dreamworks, e nonostante fosse stata proposta a molti registi, alla fine, fu Mendes a convincere la produzione ad assegnarli il film.
Mendes fin da subito volle Spacey per interpretare il protagonista, e riuscì a imporsi sui produttori che avrebbero preferito attori più conosciuti come Bruce Willis o Kevin Costner.

Chi ama il cinema deve guardare questo film e assaporarlo lentamente così da poterne cogliere la vera bellezza, la giusta critica e la capacità narrativa. Kevin Spacey è spettacolare e il ruolo sembra decisamente cucito su di lui, tanto che quel film ha anche segnato il punto più alto della sua carriera.
American Beauty è poetico. Parla di piacere, di perdizione, di rottura. Racconta di come molto spesso la società possa chiuderci delle etichette addosso e di come molto spesso si abbia la necessità di viaggiare anche solo con la fantasia.

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