Considerato per molti un vero e proprio cult
della cinematografia di fine anni ’90, American Beauty è
recentemente approdato sulla piattaforma in streaming di Netflix.
Era l’8 settembre
del 1999 quando, al Grauman’s Egytian Theatre di Los Angeles, su proiettato per
la prima volta. Non era una pellicola dalle molte pretese, gli attori presenti
sono entrati nell’immaginario collettivo e, all’allora sconosciuto regista, non
rendeva altisonanti le aspettative del pubblico. Il film riscosse un notevole
successo, così, dopo al sua uscita, esso ottenne numerosi riconoscimenti tra
cui il premio come miglior film, migliore regia e miglio attore protagonista.
Sam Mendes,
candidato agli Oscar 2020 per 1917, aveva portato in scena un’attenta critica
nei confronti della società americana e dell’immobilismo che la routine
matrimoniale molte volte porta con se. La pellicola, infatti, narrata dal suo
protagonista Lester, narra i turbamenti e le ossessioni che iniziano a
scatenarsi in lui.
Lester Burnham
(Kevin Spacey) è un uomo di 42 anni e la crisi di mezza età lo fa sentire
depresso, annoiato e arreso; si è lasciato vivere dalla vita coniugale senza
che lui potesse realmente riuscire ad aspirare ad altro. Inglobato in una
routine che lo fa sentire patetico, in un lavoro che non lo appaga e in una
relazione in cui il talamo serve solo per poter mettere fine all’ennesima
giornata. La moglie (Annette Bening), dal canto suo, ha iniziato più a tenere
alle cose che la circondano più del rapporto che ha con il marito stesso.
Lavora come venditrice di case e come hobby coltiva delle rose rosse della
varietà American Beauty.
Accanto alla
famiglia Burnham si trasferisce la famiglia Fitts composta da un ex colonnello
del Corpo dei Marines Frank (Peter Gallagher), dal figlio Ricky (Wes Bentley) e
dalla madre Barbara (Allison Janney). Il loro nucleo famigliare è
caratterizzato dalla forte presenza autorevole che il padre esercita sia sulla
moglie che sul figlio, nonostante Ricky cerchi di evadere dalla realtà
domestica spacciando e consumando sostanze illegali.
Una sera i coniugi
Burnham vanno ad assistere allo spettacolo delle cheerleader della quale la
figlia fa parte, durante quell’occasione Lester conosce l’amica di suo figlia
Angela (Mena Suvari) e riversa su di lei dei turbamenti quasi adolescenziali.
L’uomo, infatti, viene risvegliato dal suo torpore dalla bellezza di Angela
iniziando a peccare immaginando di toccare il suo corpo nudo. Le rose,
così, divengono simbolo di quella perdizione, di quel peccato, che risveglia i
sensi.
Angela, dal canto
suo, sa di piacere e le piace avere questo potere sull’uomo. Le piace essere
guardata, osservata, le piace essere la tentatrice e la seduttrice che con il
semplice tocco riesce a far cadere chiunque lei desideri ai suoi piedi.
Atteggiamento che mostra la sua piena immaturità, dovuta all’età, quando si scontra
con le parole di Ricky, perché esse metteranno in luce la sua profonda
insicurezza e quel vuoto che deve riempire per cercare di non essere una
qualunque.
Nonostante la narrazione
vera e propria si apra e si concluda con le parole di Lester, sono i personaggi
intorno a lui che cedono ed eccedono al peccato. Lui, mosso dal desiderio, non
commetterà mai effettivamente ciò che ha dato via alla sua rinascita giungendo
ad una sublimazione del sè che lo fa stare da Dio.
La bellezza di questa
pellicola è segnata dall’uso delle luci, delle inquadrature e dalla presenza dominante
del rosso passionale e carnale. Le luci si muovono sulla scena quasi in modo
teatrale, come se si assisteste alla video-visione di un’opera del Caravaggio.
Gli occhi di Angela vengono maggiormente illuminati, quando conosce Lester, come
a segnare non solo la sua bellezza, ma anche la sua mortalità. Accenti
che spingono a puntare l’attenzione dello spettatore sui particolari per
cogliere la bellezza della sottile arte della seduzione.
Le inquadrature e l’uso
della camera, in particolare, conferisce una denotazione precisa e si alterna
secondo quelli che sono i differenti punti di vista che si alternano in scena.
Ricky, mentre spia la famiglia Burnham, usa una telecamera dalla qualità ben
distinguibile da quella della camera da presa; ciò mostra proprio il passaggio
da una visione narrativa generale a una soggettiva.
Infine il rosso, il
colore che tutti associano in automatico a questa pellicola anche per merito
delle rose.
L’idea per American
Beauty venne allo sceneggiatore Alan Ball che si ispirò alla vera storia di Amy
Fisher, una giovane donna diventata famosa sui tabloid americani all’inizio
degli anni Novanta con il soprannome di “Lolita di Long Island”. La ragazza iniziò
una relazione con un uomo più vecchio e finì per sparare a sua moglie di cui
era gelosa, ricevendo poi una condanna a sette anni di carcere. Quando la
notizia colpì Ball egli era uno sceneggiatore teatrale, e nel provare a
scrivere questa storia si rese conto che non avrebbe funzionato su un palco,
così mise il soggetto da parte.
Dopo anni, Ball tirò
fuori la sceneggiatura che venne acquistata dalla Dreamworks, e nonostante
fosse stata proposta a molti registi, alla fine, fu Mendes a convincere la
produzione ad assegnarli il film.
Mendes fin da subito
volle Spacey per interpretare il protagonista, e riuscì a imporsi sui
produttori che avrebbero preferito attori più conosciuti come Bruce Willis o
Kevin Costner.
Chi ama il cinema
deve guardare questo film e assaporarlo lentamente così da poterne cogliere la
vera bellezza, la giusta critica e la capacità narrativa. Kevin Spacey è spettacolare
e il ruolo sembra decisamente cucito su di lui, tanto che quel film ha anche segnato
il punto più alto della sua carriera.
American Beauty è poetico.
Parla di piacere, di perdizione, di rottura. Racconta di come molto spesso la società
possa chiuderci delle etichette addosso e di come molto spesso si abbia la
necessità di viaggiare anche solo con la fantasia.
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