#Lapiziaween: Le strade del male - Recensione

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domenica 11 giugno 2017

Viaggio al centro della mente

Poco distante dalla stazione del quartiere Monte Mario, si trova l’ex struttura manicomiale del Santa Maria della Pietà; chiuso definitivamente nel 1999. Ha inaugurato nel 2000 la sua nuova funzione, all’interno del padiglione 6, diventando il “Museo Laboratorio della mente".

La ristrutturazione ha permesso l’avvio di un processo comunicativo particolare e intenso. Si cerca di porre lo spettatore davanti l’evidente alienazione umana, con il chiaro intento di costruire contesti comunicativi che favoriscano la prevenzione quell’idea comune nell'immaginario collettivo della salute mentale, attraverso un'attiva e significativa partecipazione del visitatore. Una continua oscillazione tra elementi reali ed esperienze di laboratorio, permette la conservazione delle memorie di un ex Ospedale Psichiatrico, utilizzando le storie di vita come paradigma di una storia antica ed attuale allo stesso tempo. L'intero percorso permette di comprendere la reale condizione dei pazienti che vi erano stati rinchiusi. Si capisce come lo scopo, della terapia, era quello di annullare la persona e la diversità.
L’esposizione è stata curata dagli artisti di “Studio Azzurro” – nel 2008 – che attraverso lo stimolo percettivo e sensoriale, permettono di elaborare una propria ricostruzione della storia dei pazienti.  Attraverso le video-interviste, ai testimoni della storia del manicomio e le esperienze dirette che le installazioni interattive offrono, il visitatore è invitato a riflettere sui percorsi dell'esclusione sociale e a mutare, o ripensare, il suo atteggiamento nei confronti della diversità. Il cammino cerca di ripercorrere, non solo l’idea sensoriale del malato mentale, ma anche quelli che furono i passi che portarono alla definitiva chiusura del manicomio. Prima della legge 180, conosciuta anche come legge Basaglia, all’interno della struttura del Santa Maria della Pietà si erano già avviati importanti e rilevanti step che portavano alla luce quanto evidentemente non necessari fossero le strutture manicomiali. Testimonianze, ancora vive, raccontano come non si aveva solo la paura di entrare in quella struttura, ma anche di uscirne.
Istallazione che permette l'ascolto di una voce, come se essa fosse nella vostra testa a sussurrare cosa comprare.
Il percorso che si apre agli occhi del visitatore appare fin da subito tetro e pronto a giocare con le sue percezioni. Dopo i primi passi, per costeggiare un muro fatto di pura follia e rabbia, ci si addentra all’interno di un cambio di prospettiva. La Camera di Ames è uno dei primi “giochi” che permette di comprendere come, al soggetto, importi più la normalità dello spazio, e quindi la sua tranquillità, che la modalità con chi le figure vi si muovono. L’illusione ottica di rendere ciò che alto piccolo e ciò che piccolo alto, deve far riflettere chi guarda a livello cognitivo sull’idea della normalità. Entrando, e continuando la visita, si viene posti davanti a tre porte con giochi diversi tra di loro. Bisogna, dapprima, mettersi in gioco e sussurrare ad un microfono, per poi mettersi davanti a uno specchio così da comprendere come l’immagine riflessa non sempre riflette quello che realmente pensiamo di essere; ed infine ci si addentra in quella cacofonia di voci, le nostre, che sembrano entrare nella nostra testa grazie all’eco della loro riproduzione. Si viene posti, immediatamente, davanti a quella che poteva essere la reale condizione di un malato mentale.

Continuando con la visita, ci si addentra a quella zona rimasta più fedele al ricordo del manicomio. La fagotteria, la farmacia, la sala pranzo e l’allestimento permettono di comprendere come l’individuo intraprendeva un vero e proprio processo di “spersonalizzazione” annullando la propria identità.
Fagotteria: luogo in cui ammassavano ogni singola proprietà del paziente.
Le testimonianze raccolte fanno comprendere come, non solo i pazienti ma anche, chi lavorava nell’istituzione perdeva la parte della propria autonomia di pensiero. Eseguire quelle routine giornaliere, vivere in quegli spazi ristretti e sottoporre o sottoporsi alle terapie diventava l’unica realtà che gli individui conoscevano.

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